Ogni estate si ripropone la domanda: la punta di cioccolato del cono gelato industriale fa male? Cosa dicono gli esperti.
Questo frammento, amatissimo da molti consumatori, è stato oggetto di numerosi studi e dibattiti scientifici, con posizioni spesso contrastanti. E’ importante analizzare con attenzione le ragioni alla base di questo sospetto e comprendere come il processo produttivo e la composizione chimica influenzino la salute.

Già nel 2016 il chimico inorganico Bert Weckhuysen, dell’Università di Utrecht, aveva sollevato un campanello d’allarme riguardo proprio a questa parte del cono gelato confezionato. Durante le sue conferenze, il professore ha illustrato come il processo di idrogenazione impiegato nella produzione del cioccolato della punta sia la chiave del problema. Tale procedimento viene utilizzato per garantire al cioccolato una consistenza che non sia né troppo dura – come nel caso dei cioccolatini – né troppo liquida, nonostante la conservazione in congelatore.
L’effetto collaterale di questa tecnica è che la punta di cioccolato industriale diventi un vero e proprio concentrato di grassi saturi. Questi ultimi sono notoriamente associati all’aumento del cosiddetto colesterolo “cattivo” (LDL), un fattore di rischio per malattie cardiovascolari. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda di limitare il consumo di grassi saturi al massimo al 10% delle calorie giornaliere, privilegiando invece grassi polinsaturi e monoinsaturi, presenti in alimenti come l’olio d’oliva, pesce azzurro e frutta secca.
In aggiunta, i gelati industriali sono spesso ricchi di zuccheri semplici e conservanti, che contribuiscono a peggiorare la qualità nutrizionale complessiva del prodotto. Il cioccolato utilizzato non è quasi mai puro, ma spesso un surrogato combinato con ingredienti di qualità inferiore, presente anche nella parte superiore del cono insieme a granella di nocciole.
Il confronto con il gelato artigianale e le alternative salutari
A fronte di questi dati, la soluzione più consigliata dagli esperti è di preferire il gelato artigianale ogni volta che sia possibile. Molte gelaterie artigianali hanno infatti adottato l’abitudine di inserire una punta di cioccolato anche nella versione del cono fatta a mano, ma in questo caso si tratta di cioccolato fuso e non idrogenato, che non presenta gli stessi rischi per la salute rilevati nel prodotto industriale.
Diversi consumatori e nutrizionisti sottolineano come, ad eccezione di chi soffre di particolari patologie o deve seguire diete rigorose, concedersi occasionalmente un cono confezionato non costituisca un pericolo serio, purché si mantenga un bilancio alimentare equilibrato. Francesca Beretta, biologa nutrizionista, evidenzia che la demonizzazione della punta di cioccolato appare eccessiva e che il consumo moderato di gelato industriale può essere parte di una dieta complessivamente sana, soprattutto quando rappresenta un momento di piacere e relax.

Negli ultimi anni, marchi come Grom e catene come Eataly sono saliti alla ribalta, anche a livello internazionale, come simboli della qualità italiana nel mondo gastronomico. Tuttavia, questi brand sono stati al centro di discussioni sul confine tra produzione artigianale e industriale, con critiche rivolte alla consistenza e alla composizione dei prodotti, spesso giudicati troppo duri o eccessivamente dolci rispetto alle aspettative di un gelato “artigianale”.
Il gelato industriale, come quello di Grom, è spesso prodotto con tecniche che privilegiano la conservazione e la distribuzione su larga scala, a discapito di alcune caratteristiche organolettiche come morbidezza e freschezza. La scelta di escludere additivi e emulsionanti per motivi di marketing, pur apprezzata da molti consumatori, può influire sulla qualità finale del prodotto.
Inoltre, l’esperienza di Eataly a New York ha evidenziato come la percezione del “made in Italy” all’estero possa includere anche prodotti industriali di consumo comune, che in Italia si trovano normalmente al supermercato, ma che diventano simboli di eccellenza gastronomica oltre confine. Questo fenomeno, definito talvolta “effetto autogrill”, sottolinea come il marketing e l’immagine siano componenti fondamentali nel successo commerciale di questi marchi, più che unicamente la qualità intrinseca del prodotto.